L’artista di fama internazionale Marco Bagnoli ha rilasciato un’intervista esclusiva al blog di IGPDecaux circa il rapporto tra le opere d’arte e lo spazio esterno, dalla città al paesaggio. L’arte, espressa nella fisicità dell’opera, è infatti in grado di integrarsi con l’ambiente che la circonda.
Di seguito trovate le domande che abbiamo rivolto all’artista:
Opere in foto (da sinistra): 1) Araba Fenice, 2013, Giardino di Boboli, Firenze; 2) Cinquantasei nomi, 1999-2000, Castello di Rivoli; 3) Spazio X Tempo, 1975-1996, Sogna.
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La sua pratica artistica si articola nell’utilizzo di materiali e discipline diversi. Tra le forme con cui ha espresso la sua arte ci sono anche le installazioni, dove la città fa da cornice dell’opera. Ci fa un esempio?
In occasione di una mia mostra personale da Giorgio Persano a Milano nel 1990 realizzai un billboard che fu affisso per strada e che rappresentava il ritaglio ingrandito del mio giornale SPAZIO X TEMPO, dove il taglio dava luogo al sintagma IO X TE e includeva una parola in sanscrito.
Nelle mie intenzioni si trattava di inserire un’opera d’arte, dotata di un proprio codice, nel sistema della comunicazione pubblicitaria. Non aveva nessun riferimento o relazione con un prodotto: non forniva neppure alcuna informazione sulla mia mostra. Era solo un opera d’arte in sé che creava un vuoto nella massa linguistica dei segni urbani.
Opera in foto: IO X TE, 1990, Galleria Giorgio Persano, Milano
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Qual è, dal suo punto di vista, il valore estetico e decorativo di un’opera d’arte collocata in città?
Sinceramente dovremmo porre maggiore attenzione al suo significato a partire dalla concezione stessa della città. Bisognerebbe creare condizioni più aperte a un dialogo. L’opera d’arte dovrebbe misurarsi con lo spazio in cui appare. Essere lo spazio stesso. E dunque scomparire, come oggetto o proposizione conclusa in se stessa, in una dimensione estetica allargata che diverrebbe a questo punto il suo spazio di fruizione.
In città cosiddette d’arte poi, l’inserimento di nuove opere d’arte, se pur secondo modelli esistenti e da tempo ormai già collaudati, si scontra con la resistenza opposta dalla volontà di conservazione del patrimonio culturale.
Opere in foto (da sinistra): 1) L’anello mancante alla catena che non c’è, 1989-2017, Piazza Ciardi, Prato; 2) Ascolta il flauto di rosa, 1985; 3) Albe of Zonsonpgangen, 1984, Laren.
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In che modo l’arte può interagire con l’ambiente esterno?
Ho operato con la mia arte in contesti diversi: dal Giardino di Boboli a Firenze fino nella brughiera di Laren in Olanda. Tutte le volte è una nuova esperienza, irripetibile ed entusiasmante. Dipende molto dalla qualità dell’offerta. Direi comunque che, oltre al giardino che ha sempre dato spazio all’utopia per il suo farsi laboratorio di forme fra vegetazione e paesaggio, una città, ma anche una piazza, o solo un muro, il tetto di una casa, possono essere occasioni per l’opera, e l’opera allora diviene scena e la scena opera. Si possono usare materiali sonori, poesia e canto, e imbastire contenuti filosofici di luce diurna e notturna, per una nuova opera aperta e totale, che coinvolga la sensibilità del pubblico che la fruisce e ne allarghi la capacità creativa.
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Foto in copertina: Dialogo nella palude